Coronavirus, studio: «I pazienti a maggior rischio hanno un basso numero di linfociti nel sangue e valori elevati di alcuni marcatori»

Da un «maxi studio clinico osservazionale» dell’ospedale San Raffaele di Milano, che ha analizzato i dati relativi a quasi 1.000 pazienti ricoverati e seguiti nei reparti e nelle terapie intensive dell’Irccs del gruppo San Donato, è emerso che alcuni soggetti rischiano di ammalarsi di coronavirus in modo più grave di altri
La ricerca è stata realizzata da un team di ricercatori guidato da Alberto Zangrillo, direttore delle Unità di Anestesia e Rianimazione generale e Cardio-Toraco-Vascolare, e Fabio Ciceri, vice direttore scientifico per la Ricerca clinica e primario dell’Unità di Ematologia e Trapianto di midollo.
«Le informazioni ottenute incrociando l’analisi dei campioni biologici, la storia clinica e i dati diagnostici dei pazienti – spiegano gli autori – ci dicono che i fattori di rischio primari per la mortalità da Covid-19 sono chiari: età avanzata, tumore maligno in corso, ipertensione arteriosa e malattia coronarica», hanno spiegato gli scienziati.
«Secondo le analisi di laboratorio, i pazienti a maggior rischio hanno un basso numero di linfociti nel sangue (perché esauriti da una risposta immunitaria fuori misura) e valori elevati di alcuni marcatori che misurano la presenza di una reazione iper-infiammatoria», hanno fatto sapere gli esperti, secondo i quali «sulla base di queste evidenze scientifiche è possibile costruire un percorso preventivo di screening, presa in carico e cura dei pazienti a rischio, che preceda il ricovero».
«L’analisi dei dati di quasi 1.000 pazienti ricoverati traccia un preciso quadro del paziente a rischio e indica la strada per riuscire a convivere con il virus», hanno spiegato i ricercatori, che avvertono «la necessità di uno stretto coordinamento tra la medicina del territorio e gli ospedali ad alta specializzazione per guidare la riapertura del Paese in sicurezza durante la fase 2».
«Attraverso gli indicatori che abbiamo individuato – ha spiegato Fabio Ciceri – possiamo riconoscere in anticipo i pazienti che svilupperanno la forma più grave della patologia. Su questi pazienti potremo intervenire più precocemente e con maggior efficacia usando le terapie che già stiamo testando con discreto successo su pazienti in condizioni più avanzate». Ma «per fare tutto ciò – hanno affermato gli autori dello stuio – è fondamentale costruire un’alleanza forte tra ospedali ad alta specializzazione, che hanno l’esperienza della malattia e i farmaci innovativi a disposizione, e la medicina del territorio, che grazie a una veloce identificazione può proteggere la popolazione di pazienti a maggior rischio di ricovero e mortalità».